venerdì 6 aprile 2012

"La ragazza delle arance", Jostein Gaarder - discussione del 4 aprile 2012

Ciao a tutti!

Eccoci qui col consueto appuntamento post-discussione. Ringraziamo intanto le nostre new entry Barbara, Marianna e Maura, che sono venute a trovarci mercoledì scorso e che speriamo continueranno a partecipare al nostro gruppo di lettori pazzi.

Il libro che abbiamo letto per il mese di marzo ha suscitato accese discussioni: ad alcuni è piaciuto molto, ad altri non è piaciuto per niente. Quale presupposto migliore per un'interessante discussione?

Per comodità seguirò le osservazioni così come ce le ha mandate Lara, che purtroppo non ha potuto partecipare, ma che stata come sempre preziosa ai fini della discussione.

Prima di tutto, la copertina. Lara è rimasta un po' spiazzata dal fatto che la Ragazza delle Arance non fosse bionda, ma mora. Sarà stato l'effetto degli stereotipi sui norvegesi (tutti biondi e con gli occhi azzurri), oppure anche la copertina ha tratto in inganno? Infatti, in copertina c'è una ragazza bionda che tiene in mano in sacchetto di arance. Lara, te lo dobbiamo dire, non abbiamo fatto caso alla copertina! Quello che posso dire io a riguardo, è che mi sembra strano che in Norvegia ci sia una ragazza che compra arance. Voglio dire, forse sarebbe stato più naturale l'acquisto di qualcos'altro, non so, un frutto meno esotico per la Scandinavia, oppure dei fiori. Ma quanto avranno costato tutte quelle arance ad Oslo negli anni Ottanta? Bah...

La maggior parte di noi (se non ho capito male) è concorde nel definire la freddezza e lo scarso coinvolgimento che questo libro ha saputo donare. I narratori, dice Lara, sono sembrati distanti, come se lo scrittore non fosse riuscito a conquistarli, a farli emozionare per il ritrovamento della lettera del padre, o a farli disperare per l'impossibilità di quest'ultimo di essere partecipe della vita del figlio.
Aggiungo la mia nota personale: mi irrita un po' il fatto che un ragazzino di 15 anni prenda di fatto per mano il lettore per accompagnarlo in una "crescita", che è poi la "grande domanda" posta alla fine del romanzo, mentre lui non sembra aver subito grandi sconvolgimenti emotivi.
La grande domanda in questione è la seguente:
Immagina di trovarti sulla soglia di questa favola, in un momento non precisato di miliardi di anni fa, quando tutto fu creato, scrisse mio padre. Avevi la possibilità di scegliere se un giorno avresti voluto nascere e vivere su questo pianeta. Non avresti saputo quando saresti vissuto, e non avresti neppure saputo per quanto tempo saresti potuto rimanere qui, ma si trattava comunque soltanto di qualche anno. Avresti solo saputo che, se avessi scelto di venire al mondo un giorno, quando i tempi fossero stati maturi, come si dice, o a tempo debito, allora un giorno avresti anche dovuto staccarti da esso e lasciare tutto dietro di te. [...] Cosa avresti scelto, Georg, se ci fosse dunque stata una potenza superiore che ti avesse lasciato questa scelta [...]. Avresti scelto di vivere [...]. Oppure avresti rifiutato di partecipare a questo gioco perché non accettavi le regole? 
E ancora:
Provo una specie di senso di colpa per aver contribuito a metterti al mondo. [...] Devo essere onesto con te, Georg. Io stesso,come ho detto, avrei rifiutato l'offerta di una visita panoramica fulminea nella grande favola, del tipo "conosci il mondo". Lo ammetto. E se la pensi come me, mi sento in colpa per quanto ho contribuito a mettere in moto.  
[...] Ma, Georg, ora può sorgere un nuovo dilemma, e forse non è così complicato, o maligno, come il primo. Se tu rispondi che nonostante tutto avresti scelto di vivere, anche solo per un breve momento, allora in fondo io non ho il diritto di desiderare di non essere nato.

Per quanto riguarda la "grande domanda", secondo Lara (e io mi associo), questa parte da presupposti in qualche modo "sbagliati" o senza senso: "l'ipotesi di trovarsi sul bordo del mondo e decidere se vale la pena o meno entrare nel gioco ed accettarne le regole mi è sembrata francamente assurda. Come se l'individuo non fosse frutto delle esperienze fatte, del contesto in cui si è trovato a vivere, come se esistessimo già fatti e finiti con determinate caratteristiche prima ancora di esistere; insomma, sarò limitata, ma non riesco a concepire un'astrazione del genere. Sono profondamente convinta che ciò che siamo sia il risultato delle scelte che abbiamo operato e delle opportunità che abbiamo avuto. L'idea di esistere così come sono adesso senza aver prima fatto il percorso che mi ha portato qui, non riesco nemmeno a ipotizzarla".

Quindi questo padre, col figlioletto in braccio, pensa che forse non valeva la pena di nascere, se tanto poi bisogna lasciare tutto. Invece di sentirsi in qualche modo soddisfatto per aver comunque costruito qualcosa nella sua breve vita (l'amore, una famiglia, un figlio), pensa che, visto che tanto tutto quello che ha avuto nella vita non se lo può godere a tempo indeterminato, allora tanto vale non averlo mai avuto. Tanto valeva non aver messo al mondo il figlio. Certo, bisogna tenere presente che sta parlando un giovane uomo che sa che a breve dovrà andarsene. Ma non so, trovo che ci sia qualcosa di davvero tremendo e crudele in questa affermazione. Qualcosa che percepisco (io, Silvia) molto lontano dal mio modo di sentire.

Maura ci fa giustamente notare che dobbiamo considerare anche il "salto" culturale che c'è tra la cultura norvegese e quella italiana, e in effetti non si tratta di un dettaglio di poco conto. Pur non essendo esperti di civiltà scandinave, possiamo di certo affermare che in genere sono più razionali di noi nel ragionamento, e quindi un discorso di questo tipo probabilmente non verrebbe "male" da un lettore norvegese.

Per quanto riguarda la seconda parte (se il figlio ritiene che preferiva vivere, allora anche il padre non ha il diritto di desiderare di non essere nato). Dice Lara: "ma non può essere, forse non ho capito bene. Perché allora io che non riesco ad avere figli potrei anche farla finita qui, la mia vita non ha alcun senso, è questo il messaggio? Non credo proprio! Se posso dare la mia, di risposta, devo dire che per me questa è scontata, non ci trovo granché da riflettere: se la scelta è tra la vita e la non-vita, io scelgo la vita senza dubbio, anche se è difficile, anche se è pesante, anche se finirà. Ma forse non ho dubbi perché in questo momento sono felice?"

Fa notare Marianna, che una persona, arrivata ad un certo punto della propria esistenza, se non ha più speranze può anche arrivare a voler morire. E su questo non abbiamo nulla da obiettare. Ma è lecito chiedersi a posteriori se vale la pena vivere?

Per come la vedo io, questa lettera che il padre lascia al figlio è un bell'intervento a gamba tesa nella vita di quest'ultimo: la vita non gli ha consentito di essere partecipe della vita del figlio, ed è comprensibile che non si dia pace, ma onestamente affidare al figlio adolescente una domanda così importante (se mi dici che per te ne è valsa la pena, allora anche io posso dare un senso alla mia esistenza) mi sembra, come dire... poco rispettoso del ragazzo. E meno male che il nostro Georg è una personalità granitica, altrimenti si rischiava, secondo me, un tracollo psicologico. Invece il nostro protagonista deve avere una forza interiore non indifferente, per metabolizzare in poche ore la lettera di un padre defunto da anni, la storia della nascita della sua famiglia, il suo nuovo ruolo di "amico" e confidente del padre, e in un certo senso di "custode" della madre  (che vede con occhi diversi, dopo la lettura della lettera). Il tutto appunto senza sconvolgersi più di tanto, ed è questo secondo me uno dei grandi limiti del romanzo, e il principale motivo per cui il lettore alla fine non si sente particolarmente partecipe degli avvenimento.
Maura e Barbara vedono invece le cose in modo diverso, e non trovano che la lettera sia particolarmente sconvolgente, soprattutto se teniamo conto, come dicevamo prima, della cultura scandinava.


Arriviamo quindi alla seconda corrente di pensiero, in quanto secondo Raffaella e Matteo il passaggio citato va inteso come un invito a vivere pienamente la vita, a cogliere l'attimo, interpretando la domanda sulla scelta del nascere/non nascere come vivere davvero o no. Matteo allargherebbe il discorso alla "scelta ricorrente nella vita di buttarsi o meno in una situazione in una relazione in una vicenda in qualcosa che potrebbe farci molto male, che potrebbe ferirci che potrebbe semplicemente finire. Ovvero una sorta di carpe diem rovesciato/evoluto ovvero misurato sulla certezza che prima o poi "finisce" e non utilizzato/applicato proprio perché prima o poi finisce".

Infine, la beffa. L'uomo nella Toyota bianca era in realtà il primo fidanzato della Ragazza delle arance, ovvero Jorgen, quello che è diventato il secondo marito. Secondo Marianna non c'è niente di strano, la madre si è semplicemente rifatta una vita. Ma potrebbe non essere un caso che un personaggio marginale, considerato a volte come un "ospite" da Georg, sia alla fine la vera presenza costante nella vita della famigerata Ragazza delle arance. L'intruso diventa in vincitore (Lara). Come dobbiamo interpretare questo fatto? E' solo un espediente per il colpo di scena finale, oppure c'è qualche significato? Di certo marito e moglie hanno vissuto la loro storia d'amore in modo diverso... chissà cosa penserebbe Jorgen, il vecchio fidanzato e nuovo marito della Ragazza delle arance, dei quesiti che si pone il defunto. E chissà come sarebbero andate le cose, se la morte non fosse intervenuta portandosi via il padre di Georg. Ma qua entriamo nel campo delle fanta-discussioni...

Credo di aver riportato i punti principali della discussione. Se ho dimenticato qualcosa, o volete fare delle puntualizzazioni, vi invito caldamente ad utilizzare i commenti a questo post.

Per quanto riguarda il libro per il prossimo incontro, la giuria ha scelto 

La Masseria delle Allodole
Antonia Arslan



Anni Venti: storia di una famiglia che vive in Armenia e che in attesa dell'arrivo di parenti trasferiti in Italia restaura una masseria per accoglierli. Ma la guerra e il genocidio sotto cui soccomberà il popolo armeno faranno sì che l'incontro con questi familiari italiani non avverrà mai. Sarà anzi uno dei più giovani, unico maschio sopravvissuto, a raggiungere l'Italia e a dare inizio a una speranza per la famiglia e il popolo che rappresenta.

Buona lettura e
Buona Pasqua!