lunedì 18 febbraio 2013

"Le braci", Sandor Màrai, e "Di buona famiglia" - Isabella B. Fedrigotti, discussione del 13 febbraio 2013

Cari amici,

eccoci al consueto aggiornamento del nostro blog con il report della nostra ultima discussione. A dicembre avevamo deciso di leggere due romanzi, dato che avremmo avuto cinque settimane di tempo prima dell'incontro successivo, ma dato che la serata del 13 gennaio è saltata causa maltempo, la nostra decisione di optare per due opere si è rivelata davvero fortunata.

Michele dà avvio alla discussione, facendo notare come la nostra "accoppiata" sia stata davvero ottima: due romanzi, due protagonisti ognuno (due donne e due uomini), tutti di una certa età, e tutti alle prese con incomprensioni che hanno condizionato e avvelenato la loro vita.

I due romanzi hanno quindi molto in comune, ma allo stesso tempo si differenziano profondamente l'uno dall'altro.

Il romanzo di Màrai è un lungo monologo, con il quale Henrik intrattiene il suo ospite, Konrad, che dopo 41 anni decide di far visita al suo vecchio amico dopo un lungo periodo di permanenza all'estero. Tra i due c'è qualcosa di irrisolto che ha condizionato, in un modo o nell'altro, la vita di entrambi: tutto il romanzo si basa sull'aspettativa che questo "qualcosa" venga finalmente chiarito, ma il lettore che si aspetta un chiarimento nel senso stretto del termine è destinato a rimanere a bocca asciutta. Infatti, non ci sarà un'esplicita descrizione di chi ha fatto cosa, perché tutto il monologo di Henrik, a ben vedere, è un pretesto per portare il discorso ad un livello più alto e generale, sul senso dell'amicizia, dell'onore e delle passioni che non si spengono mai e che  danno senso all'esistenza. Tra i due amici, ad un certo punto della loro vita, si è scavato un solco, e sembra che nessuno dei due abbia intenzione di costruire il ponte che consentirebbe loro un chiarimento e un riavvicinamento. Per quarant'anni Henrik è vissuto con un unico scopo, quello di conoscere la verità, senza però affrontare apertamente le persone della propria vita (la moglie e l'amico), e di fatto creandosi una "propria" verità. 
Lara, che ha riletto il romanzo in occasione del nostro incontro, dice che, a differenza della prima lettura, la figura di Henrik l'ha infastidita; ha trovato il colonnello spocchioso e arrogante, convinto di avere sempre ragione, mentre ha visto Konrad sotto una luce diversa, e l'ha pensato superiore a Henrik, immaginandoselo stravaccato sul divano ad ascoltare il monologo dell'amico con l'aria di chi sa che deve sorbirsi una filippica senza senso. In effetti, non abbiamo la versione dei fatti di Konrad, che per tutta la nottata si limita ad ascoltare. Henrik è sicuro di avere capito come sono andati i fatti, e pensa di aver trovato, scavando nella sua memoria, le prove inoppugnabili delle sue convinzioni. Per questo non pretende una "confessione" dall'amico, chiede solo di essere ascoltato, che gli venga data la soddisfazione di raccontare come sono andate le cose (secondo la sua versione). Ma siamo sicuri che sia andata proprio così? Possiamo essere certi che Krizstina (la moglie di Henrik) abbia tradito il marito con l'amico Konrad? E se Konrad fosse scappato proprio per sfuggire alle avances di Krizstina, per evitare di tradire l'amico? Non lo sapremo mai...

Una cosa che invece il lettore capisce benissimo è che Henrik, durante tutta la sua vita, è fatalmente attirato da gente "diversa" (come la definiva suo padre), che sa comunicare in un linguaggio che lui non conosce e nemmeno vuole comprendere, quello della musica. Ciò che accomuna infatti sua madre, sua moglie e il suo migliore amico è questa sensibilità "superiore" (o forse, semplicemente, diversa dalla sua), a causa della quale Henrik si sente per tutta la vita incapace di comprendere le persone alle quali è più legato, facendolo vivere come uno straniero tra i suoi affetti. 

Ma quindi, alla fine, qual è il senso di tutto ciò? Secondo me, la chiave di tutto sta qui:


«"Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione? E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé? Questa è la domanda. Oppure, nonostante tutto, si rivolge a una persona ben definita, alla stessa, misteriosa persona che può essere indifferentemente buona o cattiva, senza che l’intensità del nostro sentimento dipenda in alcun modo dalle sue azioni e dalle sue qualità? Rispondi, se ne sei capace" dice alzando la voce. "Perché me lo domandi?" replica tranquillamente l’ospite. "Sai bene che è così"»

Il tema della passione come unico motivo per vivere è ricorrente nell'opera di Màrai (o almeno, così mi sembra di avere riscontrato leggendo altri suoi romanzi - La donna giusta, L'eredità di Ezster e La recita di Bolzano). La passione per Henrik è la fedeltà all'amicizia, all'onore e alla patria, tutte cose alle quali rimane aggrappato durante tutta la sua vita, e alle quali non rinuncia nemmeno quando l'amico se n'è andato lontano per vivere la sua vita, e la patria nella quale è nato è cresciuto è stata travolta dalla storia e si trova sull'orlo del baratro di una nuova guerra.

Con il suo monologo Henrik conclude il lungo processo che l'ha tenuto in vita per quarant'anni, è l'arringa finale, la logica conclusione di una vita votata ostinatamente all'incomprensione e al mancato perdono.

Il romanzo di Fedrigotti, d'altra parte, ci offre una bella descrizione di come due sorelle riescono a vivere nell'incomprensione più completa, riuscendo anche in questo caso ad avvelenarsi l'esistenza. Il libro è diviso in due parti speculari: nella prima parte è Clara a parlare, mettendo in evidenza tutta la frustrazione e le ingiustizie che hanno caratterizzato la sua vita. Nella seconda parte, invece, prende la parola l'altra sorella, Virginia, e il lettore che fino ad allora ha imparato a conoscere Clara e a compatirla, subisce un repentino quanto spiazzante cambio di prospettiva, che fa capire davvero quanto importante sia "sentire anche l'altra campana". Infatti, nella seconda parte Virginia narra gli stessi eventi che ha raccontato anche Clara, ma dal proprio punto di vista, e alla fine del romanzo è chiaro quanto sia profonda l'incomunicabilità di queste due sorelle, che vivono la loro vita nel sottinteso e nel non detto, rovinandosi di fatto la vita a vicenda.

Se è vero, come dice Silvia, che alla fin fine è Clara che la spunta, dato che tutti le vogliono bene, anche i nipoti di Virginia, è anche vero che entrambe vivono la propria esistenza come un completo insuccesso. Forse sono tutte e due vittima di una società rigida e bigotta, dove il non detto e la repressione dei sentimenti in nome della decenza sono la norma. Clara è talmente abituata a sacrificare le proprie esigenze in nome della  tradizione, che nella narrazione la Fedrigotti non la fa mai parlare in prima persona: come a dire "non esisto, non ho il diritto".

Se proprio vogliamo osare un parallelismo, potremmo dire che Henrik sta a Clara come Konrad sta a Virginia... e in effetti, se ci pensiamo i punti di contatto tra questi personaggi non sono poi così campati in aria.

Concludiamo dicendo che, in generale, il romanzo di Fedrigotti è piaciuto di più... però alla fine per tre quarti del tempo abbiamo parlato di quello di Màrai. Forse, nonostante il monologo un po' pesante, abbiamo subìto tutti il fascino del romanzo che riesce a riflettere mille sfaccettature, come fa un prisma con la luce (come suggerisce Matteo), e della scelta narrativa che, come nota Massimiliano, avendo un unico punto di vista lascia "aperto" il racconto, permettendo tra l'altro tutte le nostre elucubrazioni.

Passiamo ora al romanzo per il prossimo incontro, ovvero:



Breve recensione: Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui "l'inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c'era prima", in una casa assediata dalla multa. Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Un giorno però Camelia incontra Wen, un ragazzo cinese che comincia a insegnarle la sua lingua: gli ideogrammi. Assegnando nuovi significati alle cose, apriranno un varco di bellezza e mistero nella vita buia di Camelia. Ma Wen nasconde un segreto, assieme a uno strano fratello che dietro una porta deturpa vestiti...

Quindi vi ricordo che il prossimo incontro sarà:

mercoledì 13 marzo
ore 21.00
via Borromini 21
Mira

Buona lettura!