giovedì 18 aprile 2013

"Il deserto del cuore", Mary Westmacott aka Agatha Christie - discussione del 10 aprile 2013

Cari amici,

ecco ci qui col report del nostro ultimo incontro, durante il quale abbiamo discusso di uno dei primi romanzi di Agatha Christie (pubblicato sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott), "Il deserto del cuore".

Siccome ormai siamo in tanti, questa volta abbiamo sperimentato un nuovo modo di procedere con la discussione, per evitare di parlarci addosso e dare a tutti la possibilità di dire la propria opinione, ovvero l'intervento a "prenotazione". Mi sembra che il risultato sia stato buono, dato che tutti sono riusciti a parlare pur mantenendo una certa flessibilità nella gestione dei "turni". Bravissimi!

In breve la trama è questa: Joan Scudamore, signora borghese della provincia londinese, durante il viaggio di ritorno da Baghdad (dove era stata a trovare la figlia, colpita da una misteriosa malattia) a Londra, rimane bloccata in mezzo al deserto, senza nulla da fare e niente da leggere. Per riempire il vuoto, Joan durante il giorno passeggia nel deserto in prossimità della stazione ferroviaria, e la desolazione, unita al silenzio, daranno avvio a una rivoluzione interiore che la porterà a riconsiderare il suo ruolo di moglie e madre perfetta.


Giuliana dà inizio alla discussione, riconoscendo all'autrice la capacità di scrivere gialli, ma non libri sentimentali; il romanzo non le ha lasciato niente, anche se il finale tutto sommato le è piaciuto. Per Daniela non c'è molto da dire, secondo lei questo romanzo non era né un giallo né un romanzo d'amore, ha trovato Joan noiosa e pesante, la tipica signora borghese; stessa cosa per Matteo, che fa notare come il ritmo narrativo non sia quello tipico di un giallo, e in più tutta la narrazione si basa su un pensiero che ha trovato insulso e parassita che gli ha reso la lettura pesante.


Lara invece l'ha trovato un romanzo molto "giallo", e racconta come, a livello tecnico, è stata contenta di poter apprezzare la capacità magistrale dell'autrice di scoprire gli eventi un poco alla volta. La Christie, infatti, partendo esclusivamente dal nome della protagonista, sviluppa un po' alla volta, frammento dopo frammento, un quadro complesso, una struttura variegata, che per Lara non è stata né piatta né tanto meno prevedibile: in ogni pagina viene svelato e piano piano rivelato un personaggio nuovo, attraverso il quale il lettore vede gli eventi da punti di vista diversi. Tutto si sviluppa da alcuni dettagli della sua vita passata che Joan aveva deciso di ignorare e seppellire nella sua memoria. Da questi la protagonista vive una straordinaria esperienza di autoanalisi.


Matteo risponde che forse si è avvicinato a questo romanzo con un certo pregiudizio. Secondo lui, comunque, Joan non ha fatto un vero percorso interiore, ma si è lasciata prendere da una tiritera di pensieri e non si capisce davvero dove vuole andare a parare. La lettura non lo stupiva, ha letto un fatto dietro l'altro senza partecipazione, assistendo alla presa di consapevolezza di Joan senza entusiasmo, dato che tutto gli sembrava già chiaro fin dall'inizio.


Secondo Lara invece i fatti all'inizio sono solo abbozzati: certo, si capiva che la protagonista era una egocentrica, ma la vera situazione (l'infelicità del marito e la sua presunta infedeltà, il tentato suicidio della figlia minore, il comportamento della figlia maggiore) vengono svelate un po' alla volta, e solo alla fine il quadro che rappresenta la vita di Joan è davvero completo.


Marzia è combattuta tra le due posizioni di Lara e Matteo. Anche a lei è piaciuto il finale, perché pensava che alla fine Joan non riuscisse a resistere alla nuova consapevolezza e finisse col suicidarsi. Tuttavia, durante la lettura ha provato un senso di rabbia: Marzia si chiede come sia possibile che nessuno abbia mai detto a Joan quello che veramente pensava. Il marito Rodney è un debole che rinuncia ai suoi sogni solo per fare contenta la moglie (ma non solo lei, anche il resto della famiglia, che lo voleva avvocato nello studio dei genitori). Secondo Marzia tutti gli altri personaggi sono un po' inverosimili, dato che sembrano tutti delle vittime, quando in realtà sono complici. Personalmente, ho trovato questa osservazione di Marzia molto interessante, perché mi sono resa conto che io, invece, ho provato grande compassione per i figli e il marito di Joan, senza effettivamente rendermi conto che nessuno di loro ha mai avuto il coraggio di parlare chiaramente alla donna, forse per non ferirla, oppure perché alla fin fine la presenza della moglie e madre che gioca il ruolo della perfetta padrona di casa faceva comodo a tutti. Torneremo su questo punto un po' più avanti.


È il turno di Michele, che introduce la questione del titolo e fa notare quanto sia perfetto per questo romanzo, dato che effettivamente Joan porta un deserto dentro di sé, e il deserto nel quale passeggia tutti i giorni in attesa del treno sembra essere la proiezione di quello che si porta dentro (e che ha creato attorno a se, aggiungerei). Come per Matteo, anche secondo Michele non è Joan che matura una sua riflessione, ma sono piuttosto i pensieri che le "accadono", e questo spiega il motivo per cui alla fine non riesce a far suo tutto ciò che vive in quei giorni di solitudine.


Il nucleo centrale del romanzo è il momento in cui si trova sola nel deserto, come fa notare Alessio, quando le ritornano in mente tutti i messaggi indiretti che negli anni le sono stati mandati dai suoi familiari e dalle amiche, facendo riemergere come un fiume carsico tutto quello che non voleva vedere.


Io ho ammirato, come Lara, la struttura perfetta del romanzo, con il lento dipanarsi del racconto partendo dal semplice particolare, e ho notato la presenza, sia all'inizio che alla fine, di due figure femminili "amiche" di Joan sotto aspetti diversi: la prima è Blanche, che all'inizio del romanzo ci introduce al passato di Joan e al suo ruolo di studentessa modello troppo incline ad autoincensarsi e a giudicare gli altri, mentre alla fine abbiamo l'aristocratica Sasha, che invece rappresenta per Joan una porta aperta sul suo nuovo futuro, ovvero la possibilità che le viene data di cambiare vita. Ma se Sasha rappresenta una porta sul futuro, possiamo dire che Joan la apre per poi richiuderla immediatamente. Il sospetto è che Joan non sia veramente dispiaciuta per il male arrecato al prossimo, ma piuttosto sia preoccupata, ancora una volta, di non essere stata perfetta nel suo ruolo di madre e moglie. Si confessa con Sasha raccontandole quanto le è successo nel deserto, ma ritornata a Londra si lascia "travolgere" dall'ambiente conosciuto e dalla ripresa della quotidianità, e accantona i suoi propositi di cambiamento.


Secondo Silvia d.M. l'idea di lasciare perdere questi propositi nascono già sul treno durante il colloquio con Sasha: infatti, la posizione sociale di quest'ultima (che è un'aristocratica russa) mette Joan in imbarazzo, facendola sentire inferiore. Se si considera il fatto che Joan ha spinto il marito a diventare avvocato anziché agricoltore, come invece avrebbe voluto, principalmente per mantenere la posizione sociale, risulta più semplice capire il motivo del suo dietro-front: salvare le apparenze e mantenere lo status sociale diventa immediatamente la sua prima preoccupazione.


Riprende la parola Michele, che vuole mettere l'accento su quanto sia diversa la concezione che Joan ha del tempo, rispetto ai personaggi che gestiscono la rest-house nel deserto. A tal proposito, riportiamo il dialogo di Joan con l'indiano:


"Quando l'indiano riapparve per portar via il vassoio del tè, Joan gli chiese: «Lei che cosa fa, qui?».
L'uomo sembrò sorpreso dalla domanda.
«Mi occupo dei viaggiatori, memsahib».
«Lo so. Trattenne a stento l'impazienza. Ma questo non occuperà proprio tutto il tempo».
«Servo la colazione, il pranzo, il tè».
«No, no, non dicevo questo. Lei ha degli aiutanti?»
Ragazzo arabo... molto stupido, molto pigro, molto sporco... devo vedere tutto da me, non fidare di ragazzo. Lui porta acqua bagno, butta acqua sporca, aiuta cuoco».
«Siete in tre allora, lei, il ragazzo e il cuoco. Dovete avere una quantità di tempo libero. Legge, lei?»
«Leggere? Leggere cosa?»
«Libri.»
«Non leggo».
«Allora cosa fa quando non lavora?»
«Aspetto che è ora di fare altro lavoro»."

Hanno una visione completamente diversa del tempo e della sua gestione. Joan deve essere sempre occupata, perché così può sentirsi indispensabile e la risparmia dal fermarsi a pensare come veramente le sue azioni influiscono sulla vita degli altri.


Alicia ha apprezzato la scrittura, anche per la suspense che l'autrice riesce a creare. La storia le ha lasciato però amarezza: è vero che Joan è una specie di dittatore, ma è anche vero che il marito in questo non si impone, e piuttosto di arginarla, la asseconda, forse perché in fin dei conti gli fa comodo avere una moglie che dal punto di vista della società e delle convenzioni è effettivamente perfetta. È vero che, come dice Rodney, Joan è sola, ma non solo per la sua incapacità di comprendere davvero le esigenze e i sentimenti degli altri; Joan è sola anche e soprattutto perché tutte le persone che le sono vicine non hanno il coraggio di abbattere quella parete invisibile che la separa dal resto della famiglia.

Infine, il cambiamento che si ripropone di attuare non viene portato fino in fondo, e Alicia fa notare come questa sia una dinamica estremamente comune a tutti: quante volte anche noi ci proponiamo di cambiare qualcosa nelle nostre vite, e poi le cose si risolvono con un nulla di fatto?

Secondo Eloisa il finale è geniale, ed è un finale amaro e molto attuale. Nel suo mondo abituale, Joan ritrova la routine e ritorna a essere la stessa donna di prima; è una reazione molto realistica, come quando uno va in vacanza, dice Fabio, e rientra con mille propositi per poi ricadere a essere esattamente quello che era prima.


In ogni caso, come dice Alicia, è molto difficile staccarsi di dosso l'etichetta che gli altri ti assegnano. Quando rientra, Joan appare effettivamente diversa sia alla figlia che al marito: entrambi percepiscono che nella donna qualcosa è cambiato, ma restano in attesa di una conferma da parte di Joan e, nel frattempo, si rivolgono a lei come al solito. Anche questo contribuisce alla sua "ricaduta": ancora una volta, nessuno le tende una mano. Però qualcosa effettivamente è cambiato: Fabio ci fa notare la reazione della donna al quadro che il marito ha appeso nel suo studio (è un quadro che gli ricorda l'amante), e la reazione stizzita di Joan ci fa pensare che non tutto sia andato dimenticato con il rientro a casa: se prima riusciva a passare sopra a tutto, adesso sembra questo le richieda almeno un po' di sforzo, e che la consapevolezza di come stanno realmente le cose rimane coperta solo da un leggero velo di conformismo.


In fin dei conti, il vivere comporta coraggio e la capacità di far fronte al dolore. Siamo sicuri che Joan, con il suo guscio protettivo di egoismo e alta considerazione di sé, sia stata meno felice degli altri? Questo suo proteggersi dalla vita, circondandosi di cose da fare e convenzioni da seguire, non potrebbe essere stato l'unico modo per una donna fragile di affrontare il mondo? Se questa era la sua vera natura, davvero Joan aveva facoltà di scelta? Oppure è stata semplicemente una scelta di comodo?


Il tema del coraggio ritorna spesso nel romanzo. Un passaggio significativo, a mio avviso, è questo (Joan e Rodney parlano della signora Sherston):


"«Dev'essere una donna piuttosto insensibile» aveva osservato Joan, parlandone con Rodney.
  In tono brusco, lui aveva replicato di non avere mai conosciuto nessuno che avesse tanto coraggio quanto Leslie Sherston.
  «Ah, sì, coraggio» aveva detto Joan. «Ma il coraggio non è tutto».
  «Credi?» aveva ribattuto Rodney. E l'aveva detto in un tono piuttosto strano. Poi, se n'era andato in ufficio".

Secondo il nostro gruppo, chi è sé stesso, e quindi ha coraggio, alla fin fine vive più felicemente.


Infine, Massimiliano fa notare come la traduzione del romanzo in italiano sia buona. La narrazione scopre le varie sfaccettature delle personalità; i personaggi sono solo abbozzati, ma all'autrice interessavano di più i risvolti psicologici. È stata una lettura interessante per l'aspetto di autoanalisi dell'autrice, che in fin dei conti porta anche il lettore ad autoanalizzarsi.


Merita un cenno a parte la questione del titolo. L'originale infatti è "Absent in the Spring", e richiama un sonetto di Shakespeare, il numero 98, che riporto qui sotto (tanto per fare un po' gli intellettualoidi...):


From you have I been absent in the spring, 

When proud-pied April, dressed in all his trim, 
Hath put a spirit of youth in everything, 
That heavy Saturn laughed and leaped with him, 
Yet nor the lays of birds, nor the sweet smell 
Of different flowers in odor and in hue, 
Could make me any summer's story tell, 
Or from their proud lap pluck them where they grew. 
Nor did I wonder at the lily's white, 
Nor praise the deep vermilion in the rose; 
They were but sweet, but figures of delight, 
Drawn after you, you pattern of all those. 
      Yet seemed it winter still, and, you away, 
      As with your shadow I with these did play. 

(da: http://www.poets.org/viewmedia.php/prmMID/15556)


Ravanando un po' in internet ho scoperto che la traduzione in italiano di questo sonetto esiste.

Alla luce di tutto ciò, bisogna dire che il nostro editore italiano ce l'ha messa proprio tutta per spacciare questo romanzo per un romanzo rosa, appioppandogli un titolo che, per quanto in fin dei conti azzeccato, tra in inganno il lettore, che è indotto a pensare a un romanzo sentimentale. Una cosa è certa: si può dire di tutto, tranne che queste sia un romanzo sentimentale. Oltre che a essere sviante, la citazione di Shakespeare si perde con i cammelli nelle lande desolate del Vicino Oriente, penalizzando pesantemente il romanzo.
In merito all'annoso problema delle traduzioni in italiano, cito un intervento di Lara nella nostra pagina FB, che su indicazione di Marta segnala il caso del delizioso film intitolato "Eternal Sunshine of the Spotless Mind" (anche questa citazione di una poesia), orridamente tradotto con un "Se ti lascio ti cancello".
E con questo qualsiasi aggiunta risulta superflua.

Passiamo al romanzo del prossimo mese che sarà:




L'io narrante del libro è un mostro, un essere umano freddo, calcolatore, follemente egocentrico dal nome Ruth. Oggetto della sua malevolenza è Elizabeth, cugina rimasta orfana a nove mesi e adottata dai genitori di Ruth, che la amano come fosse figlia loro, e considerata invece dalla "sorella" come l'usurpatrice di affetti e attenzioni familiari. La storia è il mezzo della Hart per manifestare il suo convincimento che in tutti noi si celino malvagità e bontà, grettezza e generosità e che possano manifestarsi a seconda dei momenti della nostra vita.


Buona lettura! Ci vediamo:

mercoledì 08 maggio, 
ore 21:00
via Borromini 21
Mira