Eccomi qua, in ritardo come al solito, con l’aggiornamento
del nostro blog. Stavolta non ho scusanti, dato che la discussione è stata, non
dico semplice, ma per lo meno “accessibile”, e durante la serata sono riuscita
a prendere delle note, non come la chiacchierata che abbiamo fatto su quell’altro
libro, quello del mese precedente (L’urlo
e il furore) che non sono ancora riuscita a leggere tutto! Ma verrà anche
il suo turno, nei prossimi giorni, non posso mica permettere che rimanga un
buco nel nostro blog… ennò!
Allora, passiamo al nostro romanzo spagnolo, Domani nella battaglia pensa a me, di
Javier Marías. La trama, in breve, è la seguente: il protagonista narratore (Víctor Francés, ma il nome lo
conosceremo solo verso la fine del romanzo) è sceneggiatore per il cinema e “ghostwriter”.
Approfittando dell’assenza del marito, Marta Téllez, una donna conosciuta pochi
giorni prima, lo invita a cena, ma quando dovrebbe consumarsi l’avventura
erotica, Marta viene colta da malore e muore tra le braccia di Víctor. Questo,
che inizialmente non sa come comportarsi con il corpo, con il figlio della
donna che dorme nella stanza accanto e con il marito in viaggio, si rende conto
di avere condiviso con Marta la più straordinaria delle intimità, quella della
morte, e si sente l’unico testimone e depositario delle ultime parole della donna.
Decide quindi di dare un senso alla sua presenza fortuita in quella casa
conoscendo i famigliari di Marta (la sorella, il padre e il marito). Il romanzo
si conclude con l’incontro tra il protagonista e il marito, quando il lettore
si rende conto che ciò che è stato narrato fino a quel punto era soltanto una
parte della vicenda.
Dopo la
prima parte che descrive la serata di Víctor e la morte di Marta Téllez non
succede quasi più niente, e la narrazione si dilata nel riportare i pensieri
del protagonista, impigliato per puro caso in una situazione imprevedibile.
Secondo Lara, la prosa ricorda molto Saramago, anch’egli con la stessa
padronanza della lingua e capace di periodi lunghi una pagina intera senza
mostrare incertezze. In effetti, l’uso della punteggiatura in questo romanzo è
singolare: i punti sono rari, e le frasi lunghissime ci sembrano rendere meglio
il flusso dei pensieri del protagonista. Da questo punto di vista la traduzione
in italiano ci facilita le cose, perché essendo spagnolo e italiano lingue molto
simili, il traduttore è senz’altro riuscito a mantenere questa particolarità.
Chissà come avrà fatto il traduttore in tedesco…
Come
detto prima, alla fine gli sconvolgimenti fanno riconsiderare l’intero romanzo,
e gli imprimono come una sorta di “scatto in avanti” che invece manca in tutti
i capitoli precedenti. Infatti, per tutto il romanzo sembra che ci sia una
costante involuzione, un movimento come circolare che si avvicina e si
allontana dal centro focale del romanzo che è la morte di Marta, di fatto senza
muoversi mai (come suggerisce Lara). Il protagonista è “haunted”, ovvero
stregato, tormentato, e cerca un modo per “elaborare” questo fatto che gli è
piombato addosso, cercando di “maneggiarlo” nel modo più corretto possibile. L’autore,
infatti, più che al fatto in sé, è interessato alle interpretazioni che diamo
al fatto, all’etichetta che rimane attaccata alla sostanza (morte orrenda,
morte ridicola), anche quando la sostanza scompare. Emblematico a tal proposito
è il capitolo dedicato alla ex moglie e alla prostituta Vittoria: fino alla
fine rimane il dubbio (nella testa del protagonista, un po’ meno in quella del
lettore) che l’ex moglie Celia sia la prostituta Vittoria: anche se Víctor si
rende conto che tra le due c’è solo una certa somiglianza fisica, si ostina a
rimanere impigliato in una sorta di “incantesimo”, accantonando per un attimo
la ragione per imboccare i tortuosi sentieri della sua mente, quasi
convincendosi che, nonostante le accomuni solamente una certa somiglianza, le
conoscenze a sua disposizione potrebbero anche dimostrare il contrario. Come
quando, guidando di notte, ci sembra di intravvedere una persona tra le ombre a
bordo strada, e anche quando alla fine ci accorgiamo che è solamente un gioco
di luci, continuiamo a immaginare che quella sia una persona. Vi capita mai?
Questa importanza data all”’etichetta” che plasma la sostanza, piuttosto che
alla sostanza stessa, ci sembra chiara anche quando il protagonista parla del
suo rapporto con i nomi delle persone, di come questi gli rimangano in mente
anche quando i volti di chi li portava sono svaniti dalla memoria, e anche
quando ci descrive il suo lavoro di ghostwriter, o “negro”, un lavoro di
scrittore per conto terzi che lo relega nell’ombra, dato che non firma mai i
testi che scrive. Se l’etichetta che apponiamo alla sostanza è così importante
per definire la sostanza stessa, allora non apporre nessuna etichetta, o nome,
al prodotto del suo lavoro, gli consente di essere libero e gli permette di
vedere le cose da una posizione di outsider. Anche quando riesce ad entrare in
contatto con Juan Téllez, il padre di Marta, lo fa sotto falso nome (quello
dell’amico Ruyberríz), e quindi può osservare liberamente quello che gli accade
attorno. Se si fosse presentato con l’etichetta che chiunque gli avrebbe
assegnato (ovvero quella dell’amante che ha assistito alla morte di Marta – ma è
poi questa l’etichetta che meglio gli si addice?), di certo non avrebbe potuto
avvicinarsi così tanto a Téllez, né tanto meno alla sorella di Marta, Luisa.
Questo gioco tra sostanza ed “etichetta” (così l’abbiamo definita) nel quale sembra galleggiare il nostro protagonista mi fa venire in mente i concetti di significante e significato dati da Ferdinand de Saussure, il padre della linguistica moderna. Secondo Saussure, il significante è la forma, fonica o grafica, tramite la quale richiamiamo il significato, ovvero il contenuto, il concetto; ma significante e significato esistono solo in relazione l’uno con l’altro, e il loro rapporto è arbitrario. Dall’unione di forma (significante) e contenuto (significato) nasce il segno, ovvero la rappresentazione grafica del contenuto, la parola. Tutto questo rovistare nei miei sbiaditi ricordi per dire che secondo me il nostro Víctor è impigliato nel rapporto arbitrario tra etichetta e sostanza, rapporto dal quale emerge la persona così come si presenta agli occhi del prossimo. Ma mentre, in linguistica, il rapporto tra significante e significato è convenzionale e arbitrario, e il segno che ne nasce non è modificabile (per esprimere il concetto di quattrozampe peloso col naso umido e che abbaia posso dire solo “cane”, perché se dicessi “neac” nessuno mi capirebbe), il rapporto tra sostanza ed etichetta invece è molto influenzabile, e da esso dipende l’immagine di una persona. Per questo Víctor è come bloccato (e nel romanzo seguiamo più le sue “azioni” mentali, piuttosto che un’azione vera e propria), è terrorizzato dalla possibilità di apporre etichette alla vita degli altri (alla sostanza) tramite il suo agire. Forse è per questo che cerca i famigliari di Marta, perché si rende conto dell’importanza di dare “l’etichetta” giusta agli avvenimenti che l’hanno visto protagonista, raccontando alle persone giuste quello che realmente è successo, e anche quello che non è successo.
Questa di considerare non solo gli avvenimenti che hanno portato il puro fatto, ma anche tutto quello che poteva essere e non è stato, è la caratteristica fondamentale di Víctor, e ce lo dice anche l’autore nell’epilogo:
Questo gioco tra sostanza ed “etichetta” (così l’abbiamo definita) nel quale sembra galleggiare il nostro protagonista mi fa venire in mente i concetti di significante e significato dati da Ferdinand de Saussure, il padre della linguistica moderna. Secondo Saussure, il significante è la forma, fonica o grafica, tramite la quale richiamiamo il significato, ovvero il contenuto, il concetto; ma significante e significato esistono solo in relazione l’uno con l’altro, e il loro rapporto è arbitrario. Dall’unione di forma (significante) e contenuto (significato) nasce il segno, ovvero la rappresentazione grafica del contenuto, la parola. Tutto questo rovistare nei miei sbiaditi ricordi per dire che secondo me il nostro Víctor è impigliato nel rapporto arbitrario tra etichetta e sostanza, rapporto dal quale emerge la persona così come si presenta agli occhi del prossimo. Ma mentre, in linguistica, il rapporto tra significante e significato è convenzionale e arbitrario, e il segno che ne nasce non è modificabile (per esprimere il concetto di quattrozampe peloso col naso umido e che abbaia posso dire solo “cane”, perché se dicessi “neac” nessuno mi capirebbe), il rapporto tra sostanza ed etichetta invece è molto influenzabile, e da esso dipende l’immagine di una persona. Per questo Víctor è come bloccato (e nel romanzo seguiamo più le sue “azioni” mentali, piuttosto che un’azione vera e propria), è terrorizzato dalla possibilità di apporre etichette alla vita degli altri (alla sostanza) tramite il suo agire. Forse è per questo che cerca i famigliari di Marta, perché si rende conto dell’importanza di dare “l’etichetta” giusta agli avvenimenti che l’hanno visto protagonista, raccontando alle persone giuste quello che realmente è successo, e anche quello che non è successo.
Questa di considerare non solo gli avvenimenti che hanno portato il puro fatto, ma anche tutto quello che poteva essere e non è stato, è la caratteristica fondamentale di Víctor, e ce lo dice anche l’autore nell’epilogo:
“Sembra un dato di fatto che l’uomo – e forse
la donna ancora di più – abbia bisogno di una certa dose di finzione, vale a
dire, abbia bisogno dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale. […]
In fondo, tutti abbiamo la stessa tendenza, vale a dire quella di vederci nelle
diverse fasi della nostra vita come risultato e compendio di ciò che ci è
accaduto e di ciò che abbiamo ottenuto e di ciò che abbiamo realizzato, come se
fosse soltanto questo ciò che costituisce la nostra esistenza. E dimentichiamo
quasi sempre che le vite delle persone non sono soltanto questo: ogni percorso
si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre
omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo
tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose
possibilità che nella maggior parte dei caso non sono giunte a realizzarsi –
tutte tranne una, alla fin fine –, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni,
dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci
hanno paralizzati, di ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e
quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e
sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che
avrebbe potuto essere.”
Insomma,
non si è solo quello che si è scelto di essere, ma anche tutto quello che si è
scartato per arrivare a quel punto. La vita è una “materia” informe e
opalescente, che cambia consistenza a seconda della prospettiva dalla quale la
si osserva, e soprattutto a seconda degli elementi che si decide di prendere in
considerazione per osservarla. La vita è inganno, e l’inganno è la condizione
naturale nella quale vivono le persone:
“Vivere nell’inganno è facile ed è la nostra
condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto”
Certo,
non ce ne doliamo finché non ci rendiamo conto che la verità è sfuggente, e
forse non è nemmeno alla nostra portata. Lo diceva anche Nietzsche, ma questa è
un’altra storia…
Come
dicevamo prima, il finale è scoppiettante: dopo duecento pagine in cui non
succede praticamente niente, se non nella testa del protagonista, in una decina
di pagine arriva la spinta che finalmente fa spinge la cometa Víctor fuori dal
campo gravitazionale della morte di Marta. Senza svelare il finale a chi non ha
ancora letto il libro e magari è stato invogliato alla lettura da questi nostri
ragionamenti, possiamo dire che il finale conferma quanto abbiamo detto prima:
una persona è costituita non solo dai fatti che conosce e sono accaduti, e dai
fatti che non sono accaduti e che l’hanno portata a un determinato punto, ma in
fin dei conti anche dai fatti che non conosceva e sono accaduti. Le situazioni
e i personaggi che Deàn (il marito) racconta a Víctor in chiusura di romanzo
entrano definitivamente nella vita di quest’ultimo, che non potrà più
ignorarli. Anche loro contribuiscono a formare la “cometa Víctor”, che a ben
vedere, gli consentono finalmente di riprendere il proprio cammino.
Questa
la mia “interpretazione” del finale che non avevo ancora letto: aspetto i
vostri commenti!
Veniamo infine al libro scelto per il mese di Agosto (rullo di tamburi):
Dai, non sbuffate, che questo romanzo ce l'avevamo in lista ormai da decenni! E per l'incontro di Settembre abbiamo deciso per Non tutti i bastardi sono di Vienna, di Andrea Molesini. Altro titolo storico nelle nostre preferenze... ormai bisogna leggerlo, visto che siamo andati anche a chiacchierare con l'autore in Villa dei Vescovi!
Allora ci vediamo
Mercoledì 01 Agosto
ore 21.00
presso Arcipelago Progetti
via Borromini 21 - Mira
Me raccomando! A proposito, chi porta le vivande la prossima volta??
Buona lettura!
comunque secondo me victor francés è sicuramente del segno della vergine! :)
RispondiEliminaCiao ragasse/i mi offro io per portare le vivande il primo di agosto e spero che oltre a Daniela ci sarà qualcun'altro!!!! :))) I commenti per il libro....appena finirò di leggerlo :)
RispondiEliminaHo finito il libro (che fatica), incuriosita all’ennesima potenza dalla ns/vs discussione. La parte finale mi ha sorpreso a dir poco, Deán, il marito di Marta, perde la moglie e l’amante praticamente in contemporanea, ma non è questo il fatto che mi ha particolarmente colpito ma quel che racconta a Victor, a pag. 267, dopo aver raccontato del finto aborto di Eva (la sua amante), di averla trattata male ecc… ed afferma che “Se avessi saputo che Marta non viveva più non avrei detestato tanto quell’infermiera, o meglio, l’avrei perdonata di sicuro. Mi sarebbe rimasta soltanto lei, capisci, per il momento. Si ha comprensione con chi ci rimane”. Ma come??? Una persona vale l’altra?? Così tanto per non star soli???!! Sono rimasta basita. :(
RispondiElimina